mercoledì 3 febbraio 2010

LA BAMBOLA PALESTINESE

Memoria 3 / La bambola palestinese
27-01-2010 di Ippolito Mauri

Ormai Ruba ha quarant’anni. Insegna in un’università a pochi chilometri da Cambridge. Non è un esilio. Come capita ad intellettuali italiani “vagabondi”, ha trovato una cattedra nel regno di sua maestà. L’incubo delle cittadinanze l’ha inconsapevolmente tormentata quando non aveva l’età per decifrare il groviglio che amareggiava i genitori apolidi alla deriva in Europa assieme a migliaia e migliaia di palestinesi aggrappati alla sola patria possibile: lo 00 della teleselezione. Famiglia borghese agiata fino al 1948. Il nonno abitava a Jaffa, dirimpetto mare. Coltivava pompelmi, arance, verdure. Nel ricordo dei genitori di Ruba, “giardini” come in Sicilia. Ma era una grande proprietà, folla di braccianti. Verdure che arrivano in Arabia Saudita; pompelmi per i mercati di Istanbul. Nella Palestina di sessant’anni fa gli uomini d’affari pensavano solo gli affari che riunivano ebrei e palestinesi nel bilancio dei guadagni. Quando Ben Gurion si affaccia al balcone per annunciare la nascita dello stato di Israele, il nonno di Ruba non è sorpreso e nemmeno turbato. “Aspettiamo che le acque si calmino. Possiamo andare avanti tranquilli”. Ma a Jaffa scoppia il finimondo. Gli uomini dell’haganah (esercito clandestino dei padri del sionismo) e i miliziani arabi che non accettano la divisione, si affrontano armi in mano. Gli altoparlanti dell’haganh tranquillizzano. Grandi potenze e Nazioni Unite hanno diviso il protettorato britannico in due stati separati ma la vita continuerà come sempre. Un capitano bussa alla porta del nonno di Ruba. Gli parla con rispetto; gentile col padrone importante. Sappiano di una sua proprietà a ridosso del confine del nostro nuovo paese. Solo una linea burocratica, nessun problema. Vada un po’ in campagna, può tornare appena torna la tranquillità. Dopo quattro mesi il nonno di Ruba capisce di aver perso tutto. Gli è proibito tornare a Jaffa e la casa di campagna ed le ultime terre rimaste si affacciano sulla linea di divisione. Ogni notte spari da una parte e dall’altra. Nessun guardiano vuol restare quando tramonta il sole. Addio pompelmi, il lavoro muore. È un imprenditore pratico, ricomincia in un altro posto. Ha messo via soldi nei paesi dove esorta. Compra nuove terre attorno a Nablus, costruisce un’altra casa, pianta pompelmi, coltiva verdure, si indebita con le banche. E torna sui mercati. Ruba non è ancora nata. Salua, figlia del nonno, si laurea a Damasco con una tesi su Kafka. Nessun velo avvolge i capelli che restano “al vento”. Sposa un ragazzo che studia medicina a Vienna. E lo segue: i soldi arrivano da casa. Ma nel ’67 i soldi non arrivano più. Il tedesco dolce della radio austriaca fa sapere che è scoppiata un’altra guerra: il blitz 1967. La corsa di Dayan, l’Egitto che perde il canale di Suez, re Hussein si ritira di là dal Giordano. Un’altra volta gli israeliani bussano alla porta del commerciante palestinese. Impongono leggi nuove. Contano le persone di famiglia. Chi è fuori resta fuori. Dei nove figli, cinque non possono tornare. Ruba nasce qualche anno dopo nella Vienna degli apolidi.

Con la Palestina riunificata nei confini che le Nazioni Unite definiscono “territori occupati”, il nonno prende la corriera per Jaffa. Suona alla porta della vecchia casa. Ha voglia di rivederla. Apre una signora polacca. Vuol sapere “ma lei chi è?”. Il vecchio non capisce e non ha tempo per farsi capire. Si guarda attorno. I mobili sono ancora i suoi mobili. C’è la poltrona dove il padre si addormentava nel riposo del pomeriggio. La signora polacca si spazientisce. Quell’arabo sulla porta che osserva ogni cosa come un ladro. cosa vuole. Continua a tacere. La nostalgia diventa insopportabile e se ne va. Ogni tanto chi si arrabbia a Nablus e alza la voce della protesta finisce in una prigione lontana L’accusa vaga è sempre la stessa: opposizione alla presenza israeliana con discorsi che rivelano intenzioni ostili. Il nonno ha il permesso di visitare un figlio dalla testa più calda, una volta al mese: resta in galera senza processo, senza condanna. Perché? Vuol sapere. Non lo sanno. Un giorno, dopo ore di corriera, burocrazia dell’identificazione, solite cose, gli comunicano che non può incontrare il suo ragazzo. Si è comportato male, è in punizione. Allora si arrabbia, furibondo per l’ultimo “inganno”. Alza il bastone. Un uomo curvo contro quattro giovanotti dalle maniche rimboccate. Finisce all’ospedale: esce un fantasma rassegnato. Muore qualche mese dopo: il tormento di aver perso tutto, anche i figli, gli ha rubato la voglia di vivere.

Intanto Salua, il marito e tre bambini hanno lasciato Vienna per l’Italia. Parenti, amici, diaspora palestinese che dà una mano. Trovano un lavoro a chi ha chiuso i libri della medicina per tirare avanti. Parla tre lingue con la scioltezza di chi ha tre patrie e ce la fa. Manda i ragazzi all’università ripetendo noiosamente “ricordate che il titolo di studio è la vostra nuova patria. Non ci è rimasto altro…”. E l’Italia diventa la sola patria possibile. Ruba è una bambina italiana quando Salua, ormai italiana, ha il permesso di tornare a Nablus per riabbracciare la madre dopo vent’anni. Passano dalla Giordania, attraversano il ponte di Allenby. All’aeroporto compra una bambola” straordinaria”: canta e ride. La bambola continua a cantare fino a quando un poliziotto israeliano apre le valige e fruga nelle borse, prassi normale ad ogni confine. Vede la bambola di Ruba e allunga la mano per prenderla. Ruba si aggrappa alla sua meraviglia: “è mia”. Il poliziotto usa anche l’altra mano. Sotto gli occhi terrorizzati della bambina tira fuori un coltello e comincia a squartarla “per scoprire cosa nasconde”. Trova la paglia dell’imbottitura, le pile, il nastro della canzone. Ruba impietrita. Lascia che i resti del giocattolo tanto amato finiscano nel bidone delle cose proibite: non li può portare di là dalla sbarra. Sfinita per il viaggio, ammutolita dal dolore, si ammala. Il febbrone dei bambini, ma non passa e il permesso della madre scade. Un medico testimonia la malattia. La legge è legge, risponde dispiaciuto il dottore israeliano. Trovano un compromesso: Salua e la bambina possono restare nella loro casa, ma devono pagare la multa prevista dal regolamento: cento dollari al giorno. E Salua si arrabbia. Copre Ruba “come un orso”, attraversano Allenby per cercare rifugio nella casa di una cugina di Amman. Ruba ricorda e ancora si commuove

3 commenti:

Andrea ha detto...

I palestinesi raccontano che gli ebrei hanno rubato loro la terra: e perché non crederci? Raccontano che loro sono sempre vissuti lì: perché non crederci? Raccontano storie su storie...ma la verità è che la terra l'hanno venduta agli attuali israeliani i relativi padroni, la terra l'hanno quindi comprata gli israeliani, l'hanno conquistata vincendo le guerre mosse dagli arabi per distruggerli.
Potrei capire il loro scontento se lì fosse esistito un Paese, una Nazione distrutta da un Israele conquistatore ma no, lì non c'era niente, lì c'era occupazione ottomana prima e inglese poi, e vivevano ebrei chiamati palestinesi prima del 1948 e arabi, beduini e seminomadi chiamati arabi. Altro che Nakba!

Miryam ha detto...

No, non li hai letto i nuovi storici, racconti ancora cazzate propagandistiche in cui non crede più nessuno. Sei anacronistico, informati e leggi prima di scrivere
miryam

Andrea ha detto...

A proposito di storici che infrangono "miti", ecco una interessante riflessione su Deir Yassin:

http://www.road90.com/watch.php?id=YaTCwSbGGJ