sabato 24 novembre 2012

Raccontare questa guerra di Gaza.

E’ incredibile osservare le centinaia di giornalisti stranieri e locali che raccontano questa guerra. di Sherine Tadros Nel 2008, Israele e l’Egitto chiusero le frontiere e confinarono i giornalisti ai margini del conflitto che si svolgeva nella Striscia di Gaza: Io e Ayman Mohyeldin (oggi corrispondente affari esteri della NBC) eravamo gli unici a descrivere al mondo che cosa stava succedendo. Non potevamo raccontare ogni sciopero, ogni tragedia; non potevamo essere ovunque e non siamo stati svegli 24 ore al giorno. In questi giorni invece, Gaza è sotto i riflettori: per via dei social media, della stampa, radio e TV – non c’è la possibilità di ignorare quel che infuria all’interno. Ho le mie teorie sul motivo per cui Israele questa volta ha deciso di non bloccare i giornalisti, ma tutto ciò sarà oggetto di un altro articolo. Gaza non è una storia particolarmente difficile da raccontare; tutto sta accadendo attorno a noi. Il problema principale dei giornalisti che devono raccontare che cosa succede qui è lo sbilanciamento del conflitto: non ci sono paragoni tra Israele e Gaza, tra i combattenti palestinesi e l’esercito israeliano, tra i razzi e i missili. Ma è proprio questo che mette in difficoltà i giornalisti. Ci insegnano a essere neutrali, imparziali, equilibrati. Ma questo non è un conflitto equilibrato e, nel tentativo di appianare le differenze, alcuni finiscono per raccontare una cosa sbagliata o incompleta. Questa settimana, una giornalista televisiva che rispetto e ammiro si è rivolta al collega in studio parlando dell’”assedio israeliano di Gaza, come lo chiamano i palestinesi”. Era nel centro di Gaza mentre le forze di terra di Israele circondavano la Striscia, le navi da guerra accerchiavano la costa e i droni e gli F16 pattugliavano i cieli. Se mai c’era stato un momento in cui si poteva dire che Gaza era sotto assedio, era quello. Eppure il bisogno di apparire equilibrata le ha impedito di dire la chiara, fredda verità. Di fronte al conflitto arabo-israeliano, i mezzi di informazione si sentono obbligati a neutralizzare gli avvenimenti per non suscitare polemiche o urtare sensibilità, a disumanizzare gli eventi per paura di mostrare compassione o, peggio ancora, simpatia verso i palestinesi, che equivarrebbe a un suicidio professionale. Ma evitare di esporsi e di dire le cose come stanno è un tradimento della verità e del giornalismo. Ecco alcuni fatti fondamentali che spesso sono omessi dai giornalisti. Hamas non è Gaza: a Gaza vivono più di un milione e mezzo di palestinesi. Ci sono madri e padri e fratelli e bambini. C’è gente che non si interessa di politica. Gaza è una società, non un rifugio di terroristi. Le parole Gaza e Hamas non sono intercambiabili. Hamas governa Gaza, ma non ci sono scuole, caserme o ministeri di Hamas. Sono definizioni usate da Israele per giustificare gli attacchi. Molti, anche se non la maggior parte di coloro che lavorano in queste istituzioni, non sono membri dell’organizzazione di Hamas. C’è pure differenza tra un membro di Hamas e un combattente palestinese. Un’altra distinzione così spesso trascurata. Il problema più pericoloso per il giornalismo di questi tempi è il concetto di bersaglio legittimo. Una casa in cui vivono dieci persone, compresi bambini, donne e anziani viene colpita da un missile. Tutti muoiono. All’inizio c’è una reazione indignata, ma poi l’esercito israeliano rende noto che l’obiettivo era un “esponente di Hamas”. Di colpo la notizia è raccontata in un altro modo. Il particolare dell’esponente di Hamas è incluso in tutti i servizi senza discutere né contestualizzare: ora è tutto a posto, perché prima l’avvenimento era troppo sbilanciato, troppo rischioso per riportarlo; la notizia sembrava troppo brutta per essere vera (sebbene nel 2008, Israele avesse bombardato casa Samouni uccidendo oltre 25 persone della stessa famiglia). Che qualcuno si fermi e domandi: anche se ci fosse stato un esponente di Hamas dentro casa, è giustificata l’uccisione di dieci civili innocenti per eliminare una persona che è, ovviamente, sotto sorveglianza israeliana? Non è proprio quello che ha evidenziato il Rapporto Goldstone? Quando decide di colpire, Israele ha la possibilità di scegliere se questo attacco vale il vantaggio che ne ottiene – se l’obiettivo è quello di far fuori il bersaglio perché non realizzarlo in un altro momento quando non è insieme a tutta la sua famiglia? Se la situazione fosse invertita e combattenti palestinesi colpissero la casa di un comandante dell’esercito israeliano, uccidendo lui, la madre, la moglie e i quattro figli, i mezzi di informazione accetterebbero tanto ciecamente la motivazione che questo era un bersaglio legittimo? La mancanza di contesto è determinante. I razzi di Hamas non sono una reazione all’ultimo missile caduto, ma a sei anni di assedi, assassini e segregazione. I missili di Israele non sono una risposta ai razzi sparati oggi su Ashkelon, ma agli anni di razzi lanciati contro le comunità del sud del paese. A innescare questa guerra non è stato un omicidio: lo scoppio del conflitto era prevedibile almeno da due anni e mezzo. Quel che in fondo c’è da chiedersi è quando finirà tutto questo. La risposta più semplice è che presto ci sarà una tregua: come in tutte le altre guerre israeliane, ci sarà quando Israele riterrà di aver portato a termine la missione e aver punito abbastanza Gaza. E in questo caso voglio dire proprio Gaza. Sherine Tadros è corrispondente di AlJazeera English dal Medio Oriente

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