lunedì 3 febbraio 2014

Yarmuk, La Palestina ha abbandonato la Palestina?


(di Elias Khury, al Quds al arabi. Traduzione dall’arabo di Camilla Matarazzo).
Non mi dilungherò a descrivere la tragedia di Yarmuk. Il campo profughi nei sobborghi di Damasco sta affrontando la peggiore operazione criminale che si possa immaginare. Gli assassini, non paghi dei bombardamenti che ne hanno distrutto le abitazioni costringendo alla fuga gran parte degli abitanti, hanno cominciato ad affamarli stringendoli in uno spietato assedio. Anziani e bambini che muoiono di fame, corpi divenuti terrificanti scheletri, invocazioni d’aiuto che non trovano eco.

Sono circa ventimila le persone rimaste all’interno del campo profughi e che oggi, sotto i bombardamenti, vittime dei cecchini e della fame, vanno incontro alla morte.

Non so che cosa provino i burocrati palestinesi che abitano nelle ville di Ramallah, né come Ahmad Jibril [leader del Fronte popolare di liberazione della Palestina - Comando Generale n.d.t.] possa permettere ai membri della sua organizzazione palestinese di prendere parte all’assedio. Né tantomeno so dire quale sia la posizione di Hezbollah e della brigata Abu Fadl Abbas, disseminati nel quartiere di Sayyida Zaynab, nei pressi del campo. Lo slogan “Zaynab, mai più prigioniera”, sventolato dai sostenitori di Hezbollah per le strade di Beirut, sottintende forse la partecipazione allo sterminio dei palestinesi nel campo di Yarmuk oppure il silenzio su ciò che accade?

“Sono sbalordito!”, come recitava il poeta Salah Jahin in uno dei suoi versi. Sbalordito dall’incoscienza di questo tempo, in cui i palestinesi vengono sterminati in nome del dissenso e della resistenza, fino a una fine che fine non ha nel vocabolario del sangue e della repressione.

La storia del campo di Yarmuk va inquadrata nel contesto della guerra che divampa in Siria. Come accade in altre zone della capitale, nella Ghuta occidentale e orientale, il campo profughi sta affrontando un’operazione di sterminio portata avanti tramite l’assedio, i massacri e la fame. I palestinesi di Siria pagano oggi il caro prezzo imposto ai siriani per la causa della libertà. Il comune destino dei due popoli, battezzato con il sangue di decine di migliaia di vittime, conferma ancora una volta che la liberazione della Palestina è parte della battaglia per la libertà della Siria e che l’unione tra libertà e liberazione è diventata il segno distintivo della nuova fase nella quale è entrata, a ritmo di sangue, la regione dei Bilad al Sham.

La tragedia del campo profughi rientra in quella più ampia vissuta oggi dai siriani, e la circolazione incontrollata di armi al suo interno è da ricollegarsi all’incapacità dell’opposizione siriana di costruire una piattaforma rivoluzionaria e democratica nel Paese. Tuttavia, ciò non dovrebbe far passare in secondo piano il fatto che la leadership palestinese è direttamente responsabile di quanto accade ai propri connazionali nell’esilio libanese e siriano.

Diciamo le cose come stanno. Durante la guerra civile libanese, i palestinesi, nonostante tutto, si rifiutarono di lasciare i campi profughi. A venir sgomberati furono Tall al Zaatar e Jisr al Basha, i cui abitanti non solo furono massacrati, ma ne vennero anche cacciati fuori con la forza. Quanto al campo di Shatila, che subì due furiosi massacri – il primo nel 1982 per mano degli israeliani e dei loro accoliti e il secondo perpetrato dal regime siriano e dai suoi seguaci libanesi durante la Guerra dei campi [1985-87 n.d.t.] – ancor oggi resta saldo sulle sue macerie. È vero che molti dei suoi abitanti se ne sono andati, ma al suo interno c’è chi persevera nel voler restare ad ogni costo.

Nel 2007, invece, in seguito all’invasione di un gruppo fondamentalista dai connotati oscuri chiamato Fath al Islam, venne aperto il fuoco nel campo profughi di Nahr al Bared. Durante gli scontri tra questa organizzazione e l’esercito libanese, da parte palestinese si assistette a un evento senza precedenti, ovvero l’esodo di tutti gli abitanti del campo, che si erano trovati tra due fuochi nemici. La tragedia di Nahr al Bared svelò fino a che punto si erano logorate le strutture politiche palestinesi e in quale esigua misura l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) svolgesse il suo ruolo di rappresentante del popolo palestinese e responsabile della sua sicurezza e incolumità.

Logoramento e assenza che non si possono spiegare semplicemente con l’ascesa delle correnti islamiste. Al contrario, si può ipotizzare che quest’ascesa sia il risultato di uno sfaldamento politico palestinese i cui tratti avevano cominciato a delinearsi con gli accordi di Oslo e che dopo la disfatta delle seconda Intifada è andato esacerbandosi.

La leadership palestinese di Ramallah si è dispensata da ogni responsabilità nei confronti del proprio popolo. Sembra addirittura che la dirigenza dell’Olp si comporti come se il popolo palestinese sia soltanto quello che vive in Cisgiordania e a Gaza. Illusa che la risoluzione avrebbe portato con sé uno stato palestinese, non ha più tenuto conto dei palestinesi della diaspora. Un’illusione che ha prodotto un infiacchimento generalizzato, che ha trasformato i vecchi combattenti in burocrati in attesa degli stati donatori per riscuotere lo stipendio a fine mese.

Questa rinuncia ha portato in Libano alla tragedia di Nahr al Bared e al mutismo politico palestinese. In Siria, invece, conduce alla catastrofe. E qui non si parla solo di Yarmuk ma anche della distruzione della maggior parte dei campi profughi in Siria, cui è seguito il sovraffollamento di quelli libanesi, con migliaia di sfollati palestinesi in fuga dall’inferno siriano.

È chiaro che le due forze che controllano la sfera politica palestinese – ovvero l’Olp e Hamas – non possiedono alcuna strategia rispetto alla posizione e al ruolo dei palestinesi della diaspora, nonostante questi ultimi rappresentino la maggioranza del popolo palestinese. E questo senza parlare dell’assenza di una qualunque visione nei confronti dei palestinesi del ’48, che si autodefiniscono “arabi d’Israele”!

Questa carenza ha condotto a politiche ambigue nei confronti della brutalità dimostrata dal regime siriano verso i campi e ha significato una sola cosa: i profughi sono stati abbandonati al loro destino facendoli sentire orfani.

La rinuncia ai palestinesi della diaspora e dei campi profughi è il primo passo verso la rinuncia alla Palestina tutta. Coloro che credono di poter mantener salda la propria autorità sotto l’occupazione facendo i furbi con i negoziati, si illudono, per non dire che sono complici.

La relazione semirecisa tra la dirigenza palestinese e la diaspora determina l’effettiva rinuncia al diritto al ritorno, mentre rinunciare al legame con i palestinesi del ’48 sottintende un tacito riconoscimento dell’ebraicità dello stato. Allora, di cosa si discuterà al tavolo dei negoziati, della terra erosa dagli insediamenti? O forse della ebraizzazione di Gerusalemme?

Negozieranno? O cercheranno soltanto di assicurarsi la sopravvivenza in un’autorità che autorità non ha? Oppure sono semplicemente un’altra faccia di una sconfitta annunciata che si prende gioco dell’incapacità rincarandone la dose?

Che la Palestina esista con tutto il suo popolo o che non esista affatto!

Yarmuk è diventato sinonimo di Palestina. Allora perché si ritrova da solo? La Palestina ha abbandonato la Palestina?

***

La sera di mercoledì 15 gennaio una sessantina di persone si sono riunite davanti alla sede dell’Escwa a Beirut per manifestare la propria solidarietà al campo di Yarmuk.

Un bambino di cinque anni sventolava la bandiera palestinese. Mi sono avvicinato a chiedergli come si chiamasse e sul suo volto raggiante ho ritrovato i volti di tutti i bambini libanesi, palestinesi e siriani. Stavo per rivolgergli la parola, ma poi ho desistito. Il bambino giocherellava con la bandiera e saltellava al ritmo della canzone. Guardava lontano, là dove i suoi occhi custodivano un mondo immaginario in cui non c’era posto per la brutalità degli assassini.

Ho provato imbarazzo di fronte ai suoi begli occhi, ho provato imbarazzo per la vergogna che abbiamo lasciato in eredità a lui e ai bambini della sua generazione. Ho provato imbarazzo per la sua immagine, che oggi a Yarmuk rappresenta quella di bambini che muoiono di fame nel mezzo del nostro silenzio, della nostra impotenza e delle nostre parole mute.

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