giovedì 11 settembre 2014

STORIA DI UN MASSACRO


Storia di un massacro di Ilan Pappé

Pubblicato da Francesco Penzo il 1/9/14 • Inserito nella categoria: A voce alta,Numero 198

La gente di Gaza e dappertutto in Palestina è delusa per la mancanza di qualsiasi significativa reazione internazionale alla carneficina e alle distruzioni che l’assalto israeliano ha finora lasciato dietro di sé. Questa incapacità, o assenza di volontà, ad agire sembra essere in primo luogo un’accettazione della narrativa e delle argomentazioni israeliane sulla crisi di Gaza. Israele ha sviluppato una narrativa molto chiara riguardo all’attuale carneficina a Gaza.
E’ una tragedia causata da un attacco missilistico di Hamas, non provocato dallo stato ebraico, a cui Israele ha dovuto reagire per autodifesa. Se i mezzi d’informazione occidentali dominanti, accademici e politici, possono avere riserve sulla proporzionalità della forza usata da Israele, in buona sostanza lo accettano. Questa narrazione israeliana è rigettata totalmente nel mondo del ciberattivismo e dei media alternativi. Lì sembra che la condanna dell’azione di Israele come un crimine di guerra sia diffusa e consensuale.
La principale differenza tra le due analisi dall’alto e dal basso è la disponibilità degli attivisti a studiare in maniera più attenta e approfondita il contesto storico e ideologico dell’attuale azione israeliana a Gaza. Questa tendenza dovrebbe essere ulteriormente rafforzata e questo pezzo è solo un modesto tentativo di contribuire in questo senso.

Un massacro ad hoc?
Una valutazione e una contestualizzazione storica dell’attuale assalto di Israele a Gaza e quella dei tre precedenti a partire dal 2006 mostra chiaramente la politica genocida israeliana. Una politica incrementale di uccisioni massicce che non è tanto un prodotto di una spietata intenzione quanto l’inevitabile risultato della strategia globale di Israele nei riguardi della Palestina in generale e delle aree occupate nel 1967 in particolare.
Su questa circostanza occorre insistere, poiché la macchina propagandistica israeliana tenta continuamente di esporre le sue politiche fuori dal contesto e trasforma il pretesto alla base di ogni nuova ondata distruttiva nella principale giustificazione per un’altra orgia di massacri indiscriminati nei “killing fields” di Palestina.
La strategia israeliana di presentare le sue politiche brutali come una risposta ad hoc a questa o quell’azione palestinese è vecchia quanto la presenza stessa in Palestina del sionismo. È stata usata ripetutamente come una giustificazione per realizzare la visione sionista di una Palestina futura che ha al suo interno pochissimi nativi palestinesi, o nessuno. I mezzi per raggiungere questo scopo sono cambiati nel corso degli anni, ma la formula è rimasta la stessa: qualunque possa essere la visione sionistica di uno stato ebraico, essa si può concretizzare solo senza un numero significativo di palestinesi al suo interno. E oggigiorno la visione è di un’Israele che si estende quasi sull’intera Palestina storica dove milioni di palestinesi ancora vivono.
Questa visione è divenuta problematica allorché l’avidità territoriale ha spinto Israele a cercare di tenere la Cisgiordania e la striscia di Gaza sotto il suo completo controllo dal giugno 1967. Israele ha cercato il modo di tenere i territori che quell’anno aveva occupato senza incorporare la loro popolazione come sua cittadinanza titolare di diritti. Al tempo stesso partecipava ad una farsa di ‘processo di pace’ per occultare o guadagnare tempo per le sue politiche di colonizzazione unilaterale messe in campo.
Nei decenni, Israele ha differenziato tra aree che intendeva controllare direttamente e quelle che voleva gestire indirettamente, con lo scopo nel lungo periodo di ridurre la popolazione palestinese al minimo mediante, tra l’altro, la pulizia etnica e lo strangolamento economico e geografico. Perciò la Cisgiordania è stata, a tutti gli effetti, divisa in zone ‘ebraiche’ e zone ‘palestinesi’ – una realtà che molti israeliani possono accettare ammesso che i palestinesi di questi Bantustan siano contenti della loro incarcerazione in queste mega-prigioni. La collocazione geopolitica della Cisgiordania crea l’impressione in Israele, quantomeno, che sia possibile ottenerlo senza aspettarsi una terza sollevazione o un’eccessiva condanna internazionale.
La striscia di Gaza, per via della sua esclusiva collocazione geopolitica, non si prestava tanto facilmente a questa strategia. Fin dal 1994, e ancor più allorché Ariel Sharon giunse al potere come primo ministro all’inizio del 2000, la strategia era di ghettizzare Gaza e sperare che in un modo o nell’altro la gente di lì – 1,8 milioni ad oggi – piombasse in un eterno oblio.
Ma il ghetto ha dimostrato di essere ribelle e non disposto a vivere in condizioni di strangolamento, isolamento, inedia e collasso economico. Non c’era modo che venisse annesso all’Egitto, né nel 1948 né nel 2014. Nel 1948, Israele ha sospinto nell’area di Gaza (prima che divenisse una striscia) centinaia di migliaia di rifugiati che aveva espulso dal nord del Negev e dalla costa sud dove, così speravano, si sarebbero spostati ancora più lontano dalla Palestina.
Per un po’ dopo il 1967, intendeva tenerlo come un distretto che forniva manodopera non qualificata ma senza diritti umani o civili. Quando il popolo occupato ha resistito all’oppressione continua in due intifade, la Cisgiordania è stata divisa in piccoli bantustan circondati da colonie ebraiche, ma non ha funzionato nella striscia di Gaza, troppo piccola e troppo densamente popolata. Gli israeliani non sono stati capaci, per così dire, di ‘fare una Cisgiordania’ della striscia. Perciò l’hanno chiusa come un ghetto e quando ha resistito è stato permesso all’esercito di usare le sue armi più potenti e letali per colpirla. L’inevitabile risultato di una reazione accumulativa di questo genere è stata genocida.

Genocidio incrementale
L’uccisione di tre adolescenti israeliani, due di loro minorenni, rapiti nella Cisgiordania occupata a giugno, che era soprattutto una rappresaglia per le uccisioni di bambini palestinesi a maggio, ha fornito il pretesto principale per distruggere la delicata unità che Hamas e Fatah avevano costituito in quel mese. Un’unità che aveva fatto seguito alla decisione dell’Autorità Palestinese di abbandonare il ‘processo di pace’ e di appellarsi a organizzazioni internazionali per giudicare Israele col criterio dei diritti umani e civili.
Il pretesto ha determinato la tempistica – ma la brutalità dell’attacco è stato il risultato dell’incapacità di Israele di formulare una chiara politica nei riguardi della striscia che aveva creato nel 1948. L’unica chiara caratteristica di quella politica è la profonda convinzione che spazzando via Hamas dalla striscia di Gaza stabilirebbe lì il ghetto.
Dal 1994, ancor prima dell’ascesa al potere di Hamas nella striscia di Gaza, la particolarissima collocazione geopolitica della striscia rese chiaro che ogni azione punitiva collettiva, come quella inflitta ora, poteva essere solo un’operazione di massicce uccisioni e distruzione. In altre parole: un genocidio incrementale.
Questa considerazione non ha impedito ai generali di dare gli ordini di bombardare la gente dal cielo, dal mare e da terra. Ridurre il numero di palestinesi su tutta la Palestina storica è tuttora la visione sionista; un ideale che richiede la disumanizzazione dei palestinesi. A Gaza, questo atteggiamento e questa visione prende la sua forma più inumana.
La particolare tempistica di questa ondata è determinata, come in passato, da ulteriori considerazioni. La tensione sociale interna del 2011 ribolle ancora e per un po’ di tempo c’è stata una richiesta pubblica di tagliare le spese militari e spostare i soldi dal bilancio gonfiato della ‘difesa’ ai servizi sociali. L’esercito ha bollato questa possibilità come suicida. Non c’è niente di meglio di un’operazione militare per soffocare le voci che invocano il governo di tagliare le sue spese militari.
Segni caratteristici degli stadi precedenti in questo genocidio incrementale riappaiono inoltre in questa ondata. Come nella prima operazione contro Gaza, ‘First Rains’ nel 2006, e quelle seguite nel 2009, ‘Cast Lead’, e nel 2012, ‘Pillar of Smoke’, si può nuovamente constatare il sostegno consensuale ebraico-israeliano per il massacro di civili nella striscia di Gaza, senza significative voci di dissenso. Il mondo accademico, come sempre, diviene parte dell’apparato. Diverse università hanno offerto allo Stato i loro corpi studenteschi per aiutare e dare battaglia per la narrazione israeliana nel ciberspazio e nei media alternativi.
I mezzi d’informazione israeliani, inoltre, si sono lealmente allineati con la linea governativa, non mostrando immagini della catastrofe umana che Israele ha inflitto e informando il loro pubblico che questa volta, ‘il mondo ci capisce ed è con noi’. Questa affermazione è valida fintantoché le élites politiche in Occidente continuano a dare la vecchia immunità allo stato ebraico. Il recente appello di governi occidentali al procuratore della Corte di giustizia internazionale dell’Aja di non investigare sui crimini di Israele a Gaza è emblematico.
La copertura distorta è anche alimentata dalla percezione tra i giornalisti occidentali che quello che accade a Gaza impallidisce al confronto delle atrocità in Iraq e in Siria. Confronti come questo vengono solitamente forniti senza una più ampia prospettiva storica. Una visione di più lungo periodo sulla Palestina sarebbe molto più appropriata per valutare la loro sofferenza a confronto con le carneficine da qualunque altra parte.

Conclusione: confrontarsi con la doppia morale
Ma per una migliore comprensione del massacro a Gaza non c’è bisogno solo di una visione storica. Occorre anche un approccio dialettico che identifichi il collegamento tra l’immunità di Israele e i raccapriccianti sviluppi altrove. La deumanizzazione in Iraq e in Siria è estesa e terrificante, così come lo è a Gaza. Ma c’è una differenza cruciale tra questi casi e la brutalità israeliana: i primi sono condannati come barbari e inumani in tutto il mondo, mentre quelli commessi da Israele sono ancora autorizzati pubblicamente e approvati dal presidente degli Stati Uniti, dai leader dell’UE e dagli altri amici di Israele nel mondo.
L’unica possibilità per il successo della lotta al sionismo in Palestina è basata su un programma di diritti umani e civili che non faccia differenza tra una violazione e l’altra come pure che identifichi chiaramente la vittima e il carnefice. Quelli che commettono atrocità nel mondo arabo contro minoranze oppresse e comunità prive di aiuto, così come gli israeliani che commettono questi crimini contro il popolo palestinese, devono essere giudicati tutti con i medesimi standard etici e morali. Sono tutti criminali di guerra, sebbene nel caso della Palestina sono stati all’opera più a lungo di chiunque altro. Poco importa quale sia l’identità religiosa della gente che commette le atrocità o in nome di quale religione pretendono di parlare. Sia che si dicano jihadisti, giudei o sionisti, devono essere trattati tutti allo stesso modo.
Un mondo che la smetta di usare una doppia morale nei suoi rapporti con Israele è un mondo che sarebbe di gran lunga più efficace nel reagire ai crimini di guerra in qualunque altra parte del mondo. La cessazione del genocidio incrementale a Gaza e la restituzione dei fondamentali diritti umani e civili dei palestinesi dovunque essi siano, compreso il diritto al ritorno, è l’unico modo di far nascere una nuova prospettiva per un produttivo intervento internazionale nell’intero Medio Oriente.
28 agosto 2014

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