venerdì 27 febbraio 2015

«Vagando di erba in erba» di Patrizia Cecconi

Recensione




«Vagando di erba in erba" è un libro denso e articolato che può essere letto da molti punti di vista. E' allo stesso tempo un diario di viaggio, un accurato studio della vegetazione palestinese, dei suoi siti archeologici, della sua storia e al contempo l'immagine della bellezza palestinese offesa ogni giorno dall'occupante.
Il tema centrale è il diritto ad andare in Palestina come in una terra di vacanza, perché questo luogo offeso è anche un concentrato di vita, di cultura, di storia, di umanità che resiste e produce cultura, arte, eccellenze in più campi senza aspettare la fine dell'occupazione.
Il viaggio è raccontato giorno per giorno e il discorso che parte leggero a volte si arena, malgrado la volontà dell'autrice, contro lo scoglio duro dei vari soprusi.
In Palestina di solito non si va in vacanza, eppure la Palestina è bellissima, c'è un solo problema: non esiste giuridicamente e se ci si vuole recare per qualunque motivo bisogna passare per il carceriere. Non si va da nessuna parte senza il suo permesso. Può rimetterti su un aereo o in prigione, a sua discrezione, nessuno protesterà.
La confusione generata ad arte dalla propaganda israeliana sembra aver cancellato la Palestina dalla mente dei turisti ignoranti, Israele è dappertutto, ma benché si vanti di aver fatto fiorire il deserto, rubando l'acqua ai palestinesi, i suoi cittadini conoscono ben poco la sua flora, per lo più hanno importato piante da altri luoghi, di quelle locali conoscono soprattutto gli ulivi che continuano ad abbattere o radere al suolo lasciando distese di tristi monconi come quelli che feriscono lo sguardo passando per Gerico.
I 30 giorni di viaggio raccontati in altrettanti capitoli, iniziano ognuno con una citazione poetica palestinese e il libro si apre con una poesia di M. Darwish. Nel libro tutto è correlato, le persone, la vegetazione. la storia, la cultura, l'arte, la cucina, l'archeologia, ogni frammento della Palestina si riflette in un altro e a un altro ancora rimanda, in un allargamento e simultaneamente un approfondimento del racconto, che travalica la cultura palestinese e trova legami storici e mitici fin nell'antica Grecia con un taglio così erudito che rende impossibile e riduttiva un'unica lettura.
Ogni esperienza vissuta in ogni singola giornata è intrecciata alla vegetazione palestinese, che come un filo conduttore ne segna ogni aspetto. Conosciamo struttura, storia e proprietà di ogni singola pianta tanto che il libro è tra le tante altre cose anche un trattato di botanica.
Tra tutte ricorre e troneggia la senape. Cresce ovunque, anche dove tutto è stato distrutto, rinasce anche se è stata strappata. Il contrasto tra il minuscolo seme e l'altezza e vigore della pianta si presta bene come metafora di questo popolo caparbio e l'autrice non può rinunciare a citare i versi di Mahmud Darwish «Noi siamo parte del nostro ambiente e lo condividiamo con i fiori, e come loro cerchiamo un clima adatto per crescere, e ritornare continuamente alla vita dopo una breve morte.» Nella città di Qalkilya circondata dal muro che ha inglobato sorgenti e frutteti sottraendoli alla città, le case hanno tuttavia giardini e «qui tutti quelli che possono piantano almeno un fiore» nota l'autrice. Il legame palestinese con la terra ha la forza del sacro e la signora anziana che offre con « fierezza» i fichi alla viaggiatrice dice che senza la terra nessuna casa palestinese è una casa e l'albero che produce quei fichi è come una stanza di questa casa. Andando da Qalkilya a Tulkarem Patrizia scopre l'origine del nome della città: Karma e significa vigneti.
Una terra dei miracoli la Palestina, dove le orchidee fioriscono in agosto e il tronco di un albero sfonda un muro di contenimento per rialzarsi oltre di esso e svettare contro il cielo. «E' un albero cresciuto da se, appartiene a questa terra, ha sfondato il muro ed è uscito fuori così» risponde la suora salesiana alla domanda di Patrizia. « E' un'immagine folgorante nella sua suggestione metaforica. E' come un manifesto naturale posto lì a dichiarare solennemente al mondo che la Resistenza non ha nessun muro che possa fermarla!» scrive Patrizia. E cerca insistentemente il colocynthis-Handala, la cocurbitacea amara usata da sempre tanto in medicina quanto in erboristeria per la cura del diabete ma la pianta, diventata una rarità, non si trova. La pianta amara aveva ispirato il disegnatore palestinese Naji Al Ali per disegnare il bambino sempre presente nelle sue vignette girato di spalle che guarda la scena come un testimone. Era una rappresentazione di se stesso, quando a dieci anni, era diventato profugo. Handala si sarebbe girato quando la Palestina sarebbe diventata libera, ma Handala gira il mondo ancora di spalle e anche Naji Al Ali non c'è più. Patrizia prende una decisione: farà un viaggio esclusivamente alla ricerca del colocynthis, ne cercherà i semi per depositarli ovunque e ogni anno ripianterà la Resistenza finché non ce ne sarà più bisogno.
Ma la Palestina è anche terra di paradossi: a Beit Jala Patrizia assiste a una riunione di contadini, un agricoltore ottantenne «solido come una roccia» racconta che il suo campo è sempre stato parte della sua vita ma l'esercito lo lascia entrare a coltivarlo solo sette otto giorni l'anno, non bastasse questo gli hanno anche distrutto il pozzo, la ragione: la costruzione di un muretto che secondo le autorità israeliane rappresentava una «violazione ambientale». Lasciando da parte il fatto che il pozzo non costituiva violazione alcuna, cosa dire di una contestazione simile da parte di chi di muro ne costruisce 700 chilometri? Si chiede l'autrice, e cita la propaganda israeliana che invita i turisti a «fare un'esperienza unica piantando un albero che seguiterà a crescere e fruttificare». Secondo tale propaganda il JNF (fondo nazionale ebraico) avrebbe trasformato un deserto in un giardino. Certamente il JNF ha piantato milioni di alberi, intere foreste a volte, sui resti dei villaggi palestinesi distrutti, nel contempo ne ha abbattuti altrettanti appartenenti ai palestinesi. L'interpretazione del rispetto dell'ambiente israeliano è davvero sconcertante, mentre inquina e massacra il territorio palestinese si fa paladino di ambientalismo. Eh si, Patrizia ha ragione, la Palestina è anche terra di paradossi!
Nessuna manifestazione vegetale sfugge alla viaggiatrice, che ricerca erbe spontanee, non pettinate, pratoline che crescono all'ombra di un muro dove neppure arriva il sole e conosciamo le qualità soporifere di questo fiore così poco apprezzato. «Belle e selvatiche» era il titolo di un suo bellissimo libro sulle piante spontanee che spesso vengono estirpate dai giardini senza che se ne conoscano le proprietà e l'uso né i benefici che se ne potrebbero trarre. Ma come in «Belle e selvatiche» anche in questo libro, pur riportandone dettagliatamente descrizione, storia e proprietà, Patrizia non parla solo di piante ed esse sono occasione di riflessioni sulla forza della natura che trionfa sulle cattiverie umane, o sull'acqua sottratta ai palestinesi e il suo raccontare passa dalla storia del villaggio a quella delle piante e al loro legame nel tempo. «Se girate in tutta la Palestina storica ogni tanto trovate un saber che spunta dal terreno. Dovunque c'è un saber c'era un villaggio palestinese» le dice Abuna Yousef, Patrizia non sa cosa sia un saber, ma le verrà tradotto: si tratta dell'Opunzia ficus-indica, il fico d'india, che gli arabi hanno sempre usato per segnare i confini tra i campi, tanto che l'uso si è diffuso anche in Sicilia dopo il loro passaggio.
Le piante possono anche essere finte, come gli uomini, e un ramo di plastica che finge di essere edera è accostato nella similitudine al parlamentare incontrato che non riesce a convincere l'autrice.
Nel suo peregrinare di erba in erba Patrizia s'imbatte in un cespuglio fiorito di ginestra. Sorge spontaneo il ricordo dei versi leopardiani che affidavano a questo fiore un messaggio di dignità e di resistenza contro la furia della natura che rende precaria la condizione umana. Ma in Palestina la potenza distruttrice non è il Vesuvio con le sue eruzioni, ma l'esercito israeliano che ogni venerdì aggredisce le manifestazioni dei villaggi lasciando a terra morti e feriti, eppure il venerdì successivo ritrovano la sfida della ragione e della dignità del popolo palestinese che lotta per i propri diritti.
E' ormai ora di partire, la nostra viaggiatrice si guarda intorno caso mai le fosse sfuggita qualche manifestazione vegetale, ed ecco che la trova, una pianta spontanea così resistente che sta creando problemi alla Monsanto, famosa multinazionale dedita a spacciare veleni agricoli e OGM. Una pianta che non teme nessun clima, che non si ammala, una pianta resistente che cresce in tutta la Palestina, è l'amaranto. Contiene vitamine A e C e niente è riuscita a debellarla.
«In Palestina la tragedia è un momento e la vita che resiste è tutto il resto» nota l'autrice davanti a un venditore di frutta dalla faccia allegra che dice «Qui si coltiva di tutto e tutto viene bene nonostante «quelli là». I palestinesi «amano davvero la vita» e a Qaikylia, circondata dal muro, si organizzano festival di musica, di poesia, scuole di danza e perfino sfilate di moda. A Qalqylia c'è anche uno zoo, in un parco giochi, che contiene un museo didattico e un ristorante. Nel campo profughi della città di Jenin, sede di tre importanti università, c'è il Freedom Theatre e Jenin organizza festival internazionali di cinema. A Ramallah è attivo il centro di musica Kamanjati, dove i ragazzi imparano a suonare il violino. Dappertutto Patrizia scopre una volontà di vivere, non sopravvivere, una creatività che diventa essa stessa resistenza. A Deieshe, un campo profughi recintato da un muro di tre metri e mezzo, c'è il centro culturale «Ibdaa», che vuol dire creatività. Il centro, attivissimo, fondato da una ventina d'anni, organizza di tutto: danza, teatro, filmografia, storia orale, arti visive. Di fronte alla porta del centro, sul muro,vi sono dipinti i ritratti di Mahmud Darwish, Gassan Kanafani e Naji Al Ali. Un poeta, uno scrittore e un vignettista, il disegnatore di Handala, tre pilastri della cultura palestinese, due di loro morti non per cause naturali. La cultura spaventa l'occupante più della resistenza attiva.
L'arte in ogni sua forma è molto presente in Palestina e Patrizia ha occasione di conoscere un artista, Monther, l'incontro programmato di qualche minuto si prolunga e si trasforma in un lungo scambio di idee. Quasi tutti i quadri dell'artista sono figurativi e Patrizia viene colpita in particolare da quello che rappresenta una donna col capo rovesciato che tiene in braccio il corpo morto del figlio, il quadro si chiama «La madre del martire» come immediatamente riconosce l'autrice, e poi c'è il ritratto del «mulathan» che significa mascherato perché il soggetto ha il volto coperto dalla kefia, e tiene in mano un fiore. Lo tende verso lo sguardo dell'osservatore, ma non è un fiore reciso, è un fiore in un vaso, ciò significa che bisogna piantare fiori di resistenza. L'artista ci tiene a ribadire che l'arte è per lui una manifestazione della vita, il popolo palestinese ama la vita e «tutto ciò che rende la vita su questa terra degna di essere vissuta» conclude citando Darwish. Patrizia non può fare a meno di classificarlo come per una pianta: genere e specie. Genere: incorrotto, specie: artista.
«Stanno cercando di distruggere il nostro spirito, ma noi siamo determinati a resistere» afferma un amico palestinese e in mezzo a mille difficoltà i palestinesi riescono anche a produrre le loro eccellenze e a sviluppare progetti significativi come la «Tenda delle nazioni». La fattoria di Dhaer, che dà vita al sogno di suo padre e della sua famiglia di trasformare il terreno in un punto di riferimento per un progetto di pace. Sul terreno è stata costruita un'azienda agricola ecologica, dove si sviluppano attività di studio e ricerca, campi estivi per i ragazzi, sperimentazioni di tecniche agricole naturali, corsi di informatica, di lingue eccetera. Ci vengono a lavorare da tutto il mondo. Dal 1991 Israele cerca di appropriarsi di questo terreno e i coloni che circondano la zona hanno tagliato centinaia di alberi ma con l'aiuto dei volontari internazionali ne sono stati piantati il doppio. Si chiama «tenda delle nazioni» perché è grazie alla presenza e alla solidarietà internazionale che Israele non ci ha messo ancora le mani sopra.
A Taybeh i palestinesi stanno tentando di piantare molti tipi di uva da loro scoperti e che non erano mai stati analizzati prima e Patrizia visita il birrificio di Nadim Khoury, formatosi a Boston, che produce una birra artigianale sulla linea della birra Sam Adams, un rivoluzionario americano. Il produttore ha scelto lo slogan «Taste the revolution» ispirandosi alla birra di Boston come al personaggio di Sam Adams. «Non abbiamo ancora un paese, ma abbiamo una birra! Produrre ed essere riconosciuti nel mondo per la nostra qualità e la nostra resistenza pacifica» dice Khoury con un sorriso «tra il furbo e il bonario».
La «jandali» è una delle migliori uve dolci palestinesi, da cui si ricavano i vini bianchi di Cremisan, una vera eccellenza, ma questa qualità di uva si trova anche in altre zone della Palestina.
La Palestina è anche ovviamente terra di siti archeologici e l'autrice non li trascura, visita Sebastya, con il suo eccezionale sito archeologico di epoca romana, Beit Sahour, dove sono stati scoperti antichi siti, rovine di chiese e monasteri, Gerico, una città fondata circa 10mila anni fa le cui fortificazioni erette prima delle piramidi egiziane testimoniano la sua vita antica. Di ogni chiesa, ogni moschea, ogni sito archeologico l'autrice racconta la storia antica e recente, le stratificazioni attraverso i secoli, e lega queste informazioni alle riflessioni sul presente. Sulla spianata delle moschee, la cui bellezza mozzafiato indurrebbe al rispetto e alla venerazione qualunque essere umano non avvilito dall'odio, l'autrice non può fare a meno di pensare ai tunnel e alle gallerie sotterranee che Israele continua a scavare sotto le fondamenta mettendo a rischio la sua stabilità. Già sono comparse delle crepe e dei cedimenti sulla sua pavimentazione. Eppure il luogo era diventato patrimonio dell'umanità, ma delle leggi umane, giuridiche e morali Israele se ne infischia.
La Palestina è una terra bellissima, carica di storia, cultura, bellezza, antichità e resistenza. E la resistenza i palestinesi la fanno non solo con le manifestazioni, ma con l'arte, con la cultura, la poesia, con le eccellenze nel campo agricolo, con la vita che afferma se stessa e vuole essere una vita degna di essere vissuta. Perfino con l'ironia e con la gioia di vivere, malgrado loro, gli occupanti.
Si, la Palestina potrebbe essere una splendida meta di vacanze, e questo libro ha il merito, tra gli altri, di averlo ampiamente dimostrato. Dopo averlo letto viene voglia di fare i bagagli e partire. Purtroppo la violenza dell'occupazione scoraggia i visitatori e anche per Natale, quando a Betlemme si sperava che arrivassero un pò di turisti per risollevare momentaneamente le sorti dell'economia locale, questa speranza è stata disattesa. Dopo l'ultima incursione a Gaza i turisti si tengono alla larga.
La nostra speranza è che si possa presto visitare la Palestina senza cani da guardia e impedimenti ovunque, senza l'occupazione ad amareggiare anche le giornate più belle, i luoghi di paradiso e la sua splendida popolazione.
Miriam Marino

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